Tornare ad Arèvalo, con Jaime Gil de Biedma

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Ad Avila non c'è molto da vedere, né molto da fare. Il problema non è solo il freddo che non si accontenta dell'inverno e cerca di invadere anche le stagioni che gli sono vicine.

Fu così che, giunto all'ultima prova, Gil de Biedma si regalò una boutade degna di Dalì. Quando gli chiesero di esporre in un tema le attrattive di quella città che, come aspirante diplomatico, più incarnava i suoi ideali, mentre gli altri candidati lodavano il fascino dei boulevard di Parigi, l'eleganza dei parchi di Londra, la dolcezza delle rovine di Roma o la monumentalità dei palazzi di Vienna, Gil de Biedma compose un'impeccabile descrizione dedicata al paese di Arèvalo, insignificante località della provincia di Avila. Quella località che, avendo letto questa storia sulla sua biografia, più di ogni altra desideravo conoscere da quando avevo messo piede a Madrid.

La prima sensazione fu quella di trovarsi in una delle piazze d'Italia rappresentate da Giorgio De Chirico. Un ampio spiazzo ovale, terroso, silenzioso, vuoto, inquietante, circondato da maestose chiese del trecento in mattoni rossi, San Miguel, El Salvador, San Martìn, le Torri Gemelle. Lo spazio più metafisico in cui sia mai capitato. Mancavano solo i manichini e i Bagni Misteriosi. Quella piazza era l'emblema di un paese che un tempo era stato grande, potente, ricco, che aveva dato la luce a Isabella di Castiglia e alla più bella architettura mudèjar della regione, e che oggi è ridotto all'abbandono, all'oblio, alla desolata condanna di declinarsi sempre al passato. Il centro è disabitato, le chiese sono oniriche, il castello è chiuso con le transenne, sotto i portici degli edifici della piazza ci sono solo vecchie imposte di legno serrate con i lucchetti, sul corso le facciate dei palazzi baronali sono lasciate morire sotto il peso delle rughe, le botteghe antiquarie muoiono con i loro proprietari. Un'impressione simile può provarsi solo in certi paesi dell'entroterra siciliano, Piazza Armerina, Caltagirone, Gangi, in cui edifici gattopardeschi ridotti a macerie, il cui fasto barocco degli interni può tuttavia intravedersi attraverso qualche finestra rotta, come in quella suggestiva installazione di Manfredi Beninati, o studiando la pomposità degli stemmi sui portali, convivono tranquillamente con il fiore all'occhiello degli abusi edilizi degli anni settanta, quelle palazzine squallide dall'intonaco verde oliva, i terrazzini sbeccati e le paraoble sul tetto. Mentre con Laura mangiavamo un chuletòn seduti a un tavolo all'aperto di un ristorante della piazza centrale, con le coppie locali che sciamavano dalla Messa verso il vermuth dell'aperitivo, lodando Arèvalo per il sole che Avila ci aveva negato, pensai che quel paese, in realtà, non esisteva davvero, ma era solo lo scenario immaginato nella più famosa poesia di Jaime Gil de Biedma, 

No volverè a ser joven:

Que la vida iba en serio
uno lo empieza a comprender màs tarde
-como todos los jòvenes, yo vine
a llevarme la vida por delante.

Dejar huella querìa
y marcharme entre aplausos
-envejecer, morir, eran tan sòlo
las dimensiones del teatro.

Pero ha pasado el tiempo
y la verdad desagradable asoma:
envejecer, morir,
es el ùnico argumento de la obra.

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